C. G. Jung

Ricordi, Sogni, Riflessioni (raccolti da Aniela Jaffé)

il Saggiatore, 1965
V. Sigmund Freud 1

L'avventura della mia evoluzione spirituale ebbe inizio quando divenni psichiatra. Senza sospettarne le conseguenze, cominciai con l'osservare i malati dall'esterno, clinicamente: e così mi imbattei in processi psichici sorprendenti. Li notavo e classificavo senza minimamente comprenderne il contenuto, che allora bastava definire «patologico». Col tempo il mio interesse si concentrò sempre più sui casi nei quali sperimentavo qualcosa di comprensibile - casi di paranoia, ciclotimia e disturbi psicogeni. Fin dal principio della mia carriera psichiatrica gli studi di Breuer e Freud insieme ai lavori di Pierre Janet mi stimolavano molto. Più di tutto mi furono d'aiuto per la comprensione delle manifestazioni della schizofrenia le tecniche freudiane dell'analisi e dell'interpretazione dei sogni. Fin dal 1900 avevo letto la Traumdeutung.2 Allora avevo messo il libro da parte perché ancora non riuscivo a capirlo: a venticinque anni mi mancava l'esperienza per apprezzare le teorie di Freud, e quest'esperienza non venne che in seguito. Nel 1903 ripresi in mano di nuovo la Traumdeutung, e scoprii come combaciava con le mie idee. Ciò che principalmente mi interessava era l'applicazione ai sogni del concetto di «meccanismo di rimozione», derivato dalla psicologia delle nevrosi. Per me era una cosa importante perché avevo spesso incontrato la rimozione nei miei esperimenti eseguiti con l'associazione di parole; in risposta a certe parole-stimolo il paziente o non aveva risposta associativa, o l'aveva con un tempo di reazione molto più lungo. Come si chiari in seguito, tale disturbo si verificava ogni volta che la parola-stimolo riguardava una sofferenza o un conflitto psichici. In molti casi il paziente non ne era cosciente, e interrogato sulla causa del disturbo, spesso rispondeva in un modo particolarmente artificioso. La lettura de L'interpretazione dei sogni di Freud mi mostrò che in tali casi operava il meccanismo di rimozione e che i fatti da me osservati concordavano con la sua teoria. Non potei che confermare le sue argomentazioni.

Diverso era il caso quando si trattava del contenuto della rimozione: qui non potevo esser d'accordo con Freud. Egli considerava come causa della rimozione il trauma sessuale, e questo non mi bastava. Durante la pratica medica avevo riscontrato molti casi di nevrosi nei quali il fattore sessuale aveva una parte secondaria, mentre erano in primo piano altri fattori: ad esempio il problema dell'adattamento sociale, la depressione per circostanze tragiche della vita, le esigenze di prestigio, e così via. In seguito sottoposi a Freud tali casi: ma egli non ammetteva altri fattori che la sessualità, e ne fui molto scontento.

Da principio non mi fu facile assegnare a Freud il posto esatto nella mia vita, o assumere nei suoi riguardi l'atteggiamento giusto. Quando conobbi la sua opera progettavo una carriera universitaria, ed ero sul punto di completare un lavoro che avrebbe dovuto portarmi avanti su quella strada. Ma Freud era decisamente una «persona non grata» nel mondo accademico del tempo, e ogni relazione con lui screditava scientificamente. Le «persone importanti» al più lo citavano di nascosto, e nei congressi si parlava di lui solo nei corridoi, mai in seduta plenaria. Pertanto la scoperta che i miei esperimenti di associazione concordavano con le teorie di Freud non m'era affatto gradevole.

Una volta, mentre ero nel mio laboratorio e riflettevo su questi problemi, il diavolo mi suggerì che sarei stato giustificato se avessi pubblicato i risultati dei miei esperimenti e le mie conclusioni senza citare Freud. Dopotutto, avevo lavorato intorno ai miei esperimenti molto prima di capire la sua opera. Ma allora sentii la voce della mia seconda personalità: «Se fai una cosa simile, come se non conoscessi Freud, è un imbroglio. Non si può fondare la propria vita su una menzogna.» Con ciò la questione fu risolta: da allora in poi presi apertamente partito per Freud e lottai per lui.

Spezzai la prima lancia in difesa di Freud in un congresso a Monaco, dove un conferenziere parlava delle nevrosi ossessive, deliberatamente evitando di citare il suo nome. Nel 1906, in relazione a questo incidente, scrissi un saggio per la « Münchner Medizinische Wochenschrift »3 sulla dottrina delle nevrosi di Freud, che aveva contribuito moltissimo alla comprensione delle nevrosi coatte. In risposta a questo articolo due professori tedeschi mi scrissero, avvertendomi che se avessi continuato a stare dalla parte di Freud e a prenderne le difese, avrei rovinato la mia carriera accademica. Risposi: «Se ciò che Freud dice è la verità, sto con lui. Non m'importa nulla della carriera, se questa deve fondarsi su una limitazione delle ricerche e sull'occultamento della verità. » E continuai a difendere Freud e le sue idee. Tuttavia sulla base delle mie personali scoperte non potevo ammettere che tutte le nevrosi fossero causate da rimozioni sessuali o da traumi sessuali. Era cosi in certi casi, ma non in altri. Nondimeno, Freud aveva aperto una nuova via all'indagine, e mi parevano assurde le proteste che allora si levavano contro di lui.4

Non incontrai molta comprensione per le idee espresse nel mio libro su La psicologia della demenza precoce. Infatti i miei colleghi ne risero. Ma fu grazie a questo lavoro che ebbi occasione di conoscere Freud. Mi invitò da lui, e il nostro primo incontro ebbe luogo a Vienna nel febbraio del 1907: ci incontrammo all'una del pomeriggio, e conversammo, quasi senza interruzione, per tredici ore. Freud era il primo uomo veramente notevole che incontrassi: nessun altro uomo conosciuto fino allora poteva competere con lui. In lui non v'era nulla che fosse banale: lo trovai di un'intelligenza fuor del comune, acuto, notevole sotto ogni riguardo. Eppure la mia prima impressione non fu molto nitida, non sapevo definirlo con chiarezza.

Ciò che mi disse della sua teoria della sessualità mi colpi, ma tuttavia le sue parole non riuscirono a rimuovere tutti i miei dubbi e perplessità. In molte occasioni cercai di esporre le mie riserve, ma ogni volta egli le attribuiva alla mia mancanza di esperienza. Freud aveva ragione: allora non avevo l'esperienza sufficiente per motivare le mie obiezioni.

Mi rendevo conto che la sua teoria della sessualità era molto importante per lui, sia da un punto di vista personale che filosofico, ma non riuscii a rendermi conto fino a che punto questa valutazione positiva fosse legata a presupposti soggettivi, e fino a che punto si fondasse su esperienze verificabili.

Anzi tutto l'atteggiamento di Freud nei riguardi dello spirito mi pareva molto discutibile. Dovunque si manifestasse un'espressione di spiritualità (nel senso intellettuale, non sovrannaturale), in una persona, in un'opera d'arte, egli ne diffidava, e insinuava che si trattasse di «sessualità rimossa». Se poi qualcosa non si poteva interpretare direttamente come sessualità, allora la definiva «psicosessualità». Protestavo che questa ipotesi, portata alle sue estreme conseguenze, avrebbe condotto a un giudizio demolitore della cultura: questa sarebbe allora apparsa solo una farsa, come la conseguenza morbosa della sessualità rimossa. «Sì,» consentiva «è cosi, ed è una maledizione del destino contro la quale siamo impotenti. » Non ero assolutamente disposto a dargli ragione, o ad accettare simili conclusioni, ma ancora non mi sentivo in grado di affrontare una discussione con lui.

Ci fu anche qualche altra cosa che mi parve significativa in quel primo incontro, e che aveva a che fare con cose che potei meditare e capire solo dopo la fine della nostra amicizia. Non era possibile non accorgersi che a Freud stesse moltissimo a cuore la sua teoria della sessualità; quando ne parlava il suo tono si faceva stringente, quasi ansioso, e svaniva completamente il suo atteggiamento critico e scettico. Segni di una strana emozione, la cui causa non mi era chiara, si manifestavano sul vuo volto. Avevo la netta sensazione che per lui la sessualità fosse una specie di «numinosum»: e questa mia impressione venne confermata da una conversazione che ebbe luogo circa tre anni dopo, nel 1910, di nuovo a Vienna.

Ho ancora vivo il ricordo di ciò che Freud mi disse: «Mio caro Jung, promettetemi di non abbandonare mai la teoria della sessualità. Questa è la cosa più importante. Vedete, dobbiamo farne un dogma, un incrollabile baluardo. » Me lo disse con passione, col tono di un padre che dica: «E promettimi solo questo, figlio mio, che andrai in chiesa tut- te le domeniche!» Con una certa sorpresa gli chiesi: «Un baluardo, contro che cosa? » Al che replicò: «Contro la nera marea di fango» e qui esitò un momento, poi aggiunse «dell'occultismo.» Innanzi tutto erano le parole «baluardo» e «dogma» che mi avevano allarmato; perché un dogma, e cioè un'incrollabile dichiarazione di fede, si stabilisce solo quando si ha lo scopo di soffocare i dubbi una volta per sempre. E questo non ha nulla a che fare col giudizio scientifico, ma riguarda solo un personale impulso di potenza.

Fu un colpo, che inferse una ferita mortale alla nostra amicizia. Sapevo che non avrei mai potuto accettare una cosa simile. Ciò che Freud pareva intendere per occultismo era praticamente tutto ciò che filosofia, religione, e anche la scienza allora nascente, la parapsicologia, avevano da dire dell'anima. Secondo me la teoria sessuale era «occulta», e cioè un'ipotesi non provata, esattamente allo stesso modo di molte altre concezioni. Pensavo che una verità scientifica fosse una ipotesi soddisfacente per il momento, ma non un articolo di fede valido per sempre.

Senza che allora lo capissi bene, avevo osservato in Freud l'insorgere di fattori religiosi inconsci. Evidentemente voleva che lo aiutassi a erigere una barriera comune contro tali minacciosi contenuti inconsci.

L'impressione che questa conversazione mi fece accrebbe la mia confusione: fino allora non avevo considerato la sessualità come qualcosa di pericolante, cui si debba tener fede perché potrebbe andar perduta. Evidentemente per Freud la sessualità significava di più che per gli altri, era una «res religiose observanda». Sotto l'impressione di pensieri e problemi di tal genere di regola si diventa riservati e reticenti; così, dopo pochi tentativi incerti da parte mia, la conversazione presto giunse alla fine.

Ero molto colpito, perplesso, confuso. Avevo la sensazione di aver avuto la visione di un territorio vergine, ignoto, dal quale mi venissero incontro sciami di idee nuove. Una cosa era chiara: Freud, che aveva sempre sottolineato la sua irreligiosità, aveva ora stabilito un dogma, o piuttosto, al posto del Dio geloso che aveva perduto, aveva messo un'altra immagine, egualmente imperiosa, quella della sessualità; una immagine non meno esigente, dominante, minacciosa, e moralmente am- bivalente di quella originale. Come al più forte, e perciò temibile, agente psichico, si danno gli attributi di «divino» o di «demoniaco», così la «libido» assumeva il ruolo di un deus absconditus. Il vantaggio di questa trasformazione per Freud era, evidentemente, che poteva considerare questo nuovo principio «numinoso» irreprensibile dal punto di vista scientifico e privo di ogni impronta religiosa. In fondo, comunque, la «numinosità», e cioè la qualità psicologica di due principi opposti, razionalmente incommensurabili - Jahvè e la sessualità - rimaneva la stessa. Era cambiato solo il nome, e con esso, naturalmente, la prospettiva: si trattava adesso di cercare in basso e non in alto ciò che era stato perduto. Ma che differenza c'è, alla fine, se l'agente principale è chiamato con un nome o con un altro? Se non esistesse la psicologia, ma ci fossero cose concrete, si potrebbe effettivamente distruggere il primo e sostituirlo con la seconda; ma nella realtà, e cioè nell'esperienza psicologica, la necessità stringente, l'ansietà, la coercizione, ecc., non scompaiono. Tanto prima che dopo, il problema resta lo stesso: come dominare o sopprimere la nostra ansia, la coscienza, la colpa, la costrizione, l'inconscio, l'istinto? Se non ci riusciamo dal lato luminoso, ideale, forse avremo più fortuna dal lato oscuro, biologico.

Questi pensieri mi vennero in mente come fiammate che divampano all'improvviso. Acquistarono valore per me in seguito quando riflettei sul carattere di Freud, e mi rivelarono il loro significato. Un tratto caratteristico, che mi colpiva più di tutto, era l'amarezza di Freud. Ne ero stato impressionato fin dal nostro primo incontro, ma rimase per me inesplicabile finché non fui capace di porlo in relazione con il suo atteggiamento verso la sessualità. Sebbene per Freud la sessualità fosse senza dubbio un «numinosum», la sua teoria e la sua terminologia sembravano definirla esclusivamente come una funzione biologica. Solo l'eccitazione con cui ne parlava faceva arguire in lui una risonanza più profonda. In ultima analisi voleva insegnare - o almeno così mi pareva - che la sessualità, considerata dall'interno, includesse la spiritualità, e avesse un significato intrinseco: ma la sua terminologia, fatta di termini concreti, era troppo angusta per riuscire a esprimere questa idea. Mi dava pertanto la sensazione che in fondo lavorasse contro il suo vero scopo e contro se stesso; e non v'è maggiore amarezza di quella che prova chi sa di essere il peggior nemico di se stesso. Per usare le sue stesse parole, si sentiva minacciato dalla «nera marea di fango», egli che, più di chiunque altro, aveva cercato di sondare quelle nere profondità.

Freud non si chiese mai perché fosse costretto a parlare continuamente della sessualità, perché questo pensiero lo dominasse talmente. Non si rendeva conto del fatto che la sua «monotonia d'interpretazione» esprimeva una fuga da se stesso, o da quell'altro lato di lui che potrebbe forse essere definito «mistico». Finché si rifiutava di riconoscere questo suo lato, non poteva riconciliarsi con se stesso. Era cieco di fronte ai paradossi e all'ambiguità dei contenuti dell'inconscio, e non sapeva che tutto ciò che emerge dall'inconscio ha un vertice e una base, un dentro e un fuori. Quando noi parliamo dell'esterno - ed è ciò che Freud faceva - consideriamo solo una metà, e per conseguenza emerge dall'inconscio un'azione opposta.

Non c'era nulla da fare contro questa unilateralità di Freud. Forse una sua personale esperienza interiore avrebbe potuto aprirgli gli occhi: ma probabilmente il suo intelletto avrebbe ridotto anche questa a « pura sessualità» o a «psicosessualità». Rimaneva votato a quell'unico aspetto, e proprio per questo motivo vedo in lui una figura tragica; perché era un grand'uomo e, ciò che è anche di più, un ispirato.

Dopo quella seconda conversazione a Vienna capii anche l'ipotesi di potenza di Alfred Adler, alla quale finora avevo prestato poca attenzione. Come molti figli, Adler aveva imparato da suo «padre» non quello che il padre «diceva», ma quello che «faceva». Sul momento il problema dell'amore - o Eros - e della potenza mi piombò addosso come un masso. Freud in persona mi aveva detto di non aver mai letto Nietzsche; ora vedevo la psicologia di Freud come, per così dire, un'abile mossa della storia spirituale, che compensava l'apoteosi del principio di potenza fatta da Nietzsche. Il problema evidentemente non era «Freud contro Adler», ma «Freud contro Nietzsche». Mi pareva più significativo considerarlo così che come una lite in famiglia nel campo della psicopatologia. Mi balenò l'idea che Eros e l'impulso di potenza fossero, come due fratelli discordi di un solo padre, di un solo impulso psichico, che - come la corrente elettrica positiva e negativa - si manifesta empiricamente in due forme opposte: l'una come patiens, l'Eros, e l'altra come agens, l'istinto di potenza, e viceversa.

L'Eros pretende alla potenza, così come l'istinto di potenza pretende all'amore. Dov'è uno dei due istinti senza l'altro? Se da una parte l'uomo soggiace all'istinto, cerca di dominarlo dall'altra. Freud mostra come l'oggetto soggiaccia all'istinto, Adler come l'uomo se ne serva allo scopo di padroneggiare l'oggetto. Nietzsche, abbandonato senza speranza al suo destino, dovette crearsi un «superuomo». Freud, concludevo, doveva sentire tanto profondamente la potenza di Eros, da volerlo elevare, come un «numen» religioso, al rango di un dogma - aere peren- nius. Non è un segreto che Zarathustra è l'annunciatore di un vangelo; e anche Freud cercava di far concorrenza alla Chiesa con l'intento di canonizzare una dottrina. È vero che non l'ha fatto troppo apertamente, ma in compenso ha accusato me di voler passare per profeta. Egli solleva la tragica pretesa e allo stesso tempo la cancella. Questo è il modo in cui per lo più ci si comporta con le numinosità, ed è giusto che sia così, perché sono vere in un senso, e non vere in un altro. L'esperienza numinosa innalza e umilia insieme. Se Freud avesse meglio considerato la verità psicologica che la sessualità è di natura numinosa - essa è un dio e un demonio - non sarebbe rimasto chiuso nei limiti di un concetto biologico. E anche Nietzsche forse non sarebbe stato trascinato ai margini del mondo dalla sua esaltazione, se si fosse tenuto più saldo ai fondamenti dell'esistenza umana.

Ogni volta che la psiche è scossa violentemente da un'esperienza numinosa, v'è il pericolo che il filo, al quale si è sospesi, possa spezzarsi. Se questo accade c'è chi cade in una affermazione assoluta, chi in una negazione parimenti assoluta. Nirdvandva (libertà dagli opposti) dice l'oriente. L'ho ben impresso nella memoria. Il pendolo spirituale oscilla tra ciò che ha senso e ciò che non ne ha, non tra giusto ed errato. Il numinosum è pericoloso perché attira gli uomini agli estremi, così che una modesta verità è considerata la verità, e un errore secondario è eguagliato all'errore fatale. Tout passe: la verità di ieri è l'inganno di oggi, e quella che ieri era una deduzione errata, può essere la rivelazione di domani: ciò specialmente per le questioni psicologiche, delle quali, in verità, conosciamo ancora assai poco. Siamo ancora lontani dal capire che cosa vuol dire che nulla esiste se non diventa consapevole una piccola - e quanto peritura! - coscienza.

La mia conversazione con Freud mi aveva provato che egli temeva che la luce numinosa delle sue intuizioni sulla sessualità potesse essere estinta da una «nera marea di fango». Così sorgeva una situazione mitologica: la lotta tra la luce e le tenebre. Ciò spiega la numinosità della faccenda e l'immediato ricorrere all'aiuto di un mezzo religioso di difesa, il dogma. Nel mio libro successivo Wandlungen und Symbole der Libido 5 che si occupava della psicologia della lotta dell'eroe, colsi il fondo mitologico della strana reazione di Freud. L'interpretazione sessuale da un lato e le pretese del «domma» dall'altro mi condussero con gli anni al problema della tipologia, come alla polarità e all'energetica dell'anima. Segui quindi un'indagine che durò alcune decine d'anni, sulla «nera marea di fango dell'occultismo»; cercai cioè di comprendere le premesse storiche consce e inconsce della nostra psicologia contemporanea.

Mi interessava sentire il parere di Freud sulla precognizione e sulla parapsicologia in genere. Quando lo andai a trovare a Vienna, nel 1909, gli chiesi che cosa ne pensasse. A causa dei suoi pregiudizi materialistici respinse in blocco tutti questi problemi come assurdi, e lo fece nei termini di un così superficiale positivismo, che mi trattenni a fatica dal rispondergli aspramente. Passarono ancora degli anni prima che Freud riconoscesse la serietà della parapsicologia e l'effettiva realtà dei fenomeni «occulti».

Mentre Freud esponeva i suoi argomenti, provavo una strana sensazione. Era come se il mio diaframma fosse di ferro e si fosse arroventato, come una vòlta incandescente. E in quel momento ci fu un tale schianto nella libreria, che era proprio accanto a noi, che entrambi ci alzammo in piedi spaventati, temendo che potesse caderci addosso. Dissi a Freud: «Ecco, questo è un esempio del cosiddetto fenomeno di esteriorizzazione catalitica. »

«Suvvia,» disse «questa è una vera sciocchezza!»

«Ma no,» risposi «vi sbagliate, Herr Professor, e per provarvelo ora vi predico che tra poco ci sarà un altro scoppio! » E, infatti, non avevo finito di dirlo che si udì nella libreria un altro schianto eguale al primo! Ancora oggi non so che cosa mi desse quella certezza. Ma sapevo al di là di ogni dubbio che il colpo si sarebbe ripetuto. Freud mi guardò stupefatto, senza dir nulla. Non so che cosa gli passasse per la mente, e che cosa volesse dire il suo sguardo. In ogni caso di qui nacque la sua diffidenza nei miei riguardi, ed ebbi la sensazione di aver fatto qualcosa che l'avesse contrariato. Non gli parlai mai più dell'incidente.6

L'anno 1909 fu decisivo per i nostri rapporti. Ero stato invitato a tenere conferenze sugli esperimenti di associazione alla Clark University (Worcester, Mass.). Indipendentemente da me, anche Freud aveva ricevuto un invito, e decidemmo di fare il viaggio assieme.7 Ci incontrammo a Brema, dove si unì a noi Ferenczi. A Brema capitò l'incidente dello svenimento di Freud, del quale si è tanto discusso. Fu indirettamente provocato da me, per il mio interesse per i «cadaveri delle paludi». Sapevo che in certe regioni della Germania settentrionale si trovavano questi cosiddetti «cadaveri delle paludi»: sono corpi di uomini preistorici che, o annegarono nelle paludi, o vi furono seppelliti. L'acqua degli acquitrini nella quale giacciono i corpi contiene acidi dell'humus, che consumano le ossa e nello stesso tempo conciano la pelle, sì che questa e i capelli sono conservati perfettamente. Sostanzialmente si tratta di un processo di mummificazione naturale, nel corso del quale i corpi sono schiacciati sino ad appiattirsi sotto il peso della torba. Tali resti vengono occasionalmente ritrovati da scavatori di torba nello Holstein, in Danimarca e in Svezia.

Avendo letto di questi cadaveri di palude me ne ricordai quando eravamo a Brema ma, essendo un poco frastornato, li confusi con le mummie delle cantine di piombo della città. Questo mio interesse diede sui nervi a Freud. Più volte mi chiese: «Perché ci tenete tanto a questi cadaveri?» Si arrabbiò esageratamente, e a tavola, mentre conversavamo sull'argomento, improvvisamente svenne. In seguito mi disse di essere convinto che tutto questo chiacchierare di cadaveri significava che io avevo desideri di morte nei suoi riguardi. Fui più che sbalordito dalla sua interpretazione; ero allarmato specialmente per l'intensità delle sue fantasie, tanto forti che potevano, com'era evidente, causargli uno svenimento.

Anche un'altra volta, in una circostanza simile, Freud svenne in mia presenza. Accadde durante il Congresso di Psicoanalisi, a Monaco, nel 1912. Qualcuno aveva portato il discorso su Amenofi IV. La questione era imperniata sul fatto che, come conseguenza del suo atteggiamento negativo verso il padre, questi aveva distrutto i cartigli di suo padre sulle stele, e che dietro la sua grande creazione di una religione monoteistica si nascondeva un complesso paterno. Irritato da queste affermazioni, tentai di stabilire che Amenofi era stato un uomo dotato di capacità creativa e profondamente religioso, le cui azioni non si potevano spiegare con un'opposizione personale al padre. Al contrario, dicevo, aveva tenuto in onore la memoria del padre, e il suo zelo distruttore era diretto solo contro il nome del dio Ammone, che aveva cancellato dovunque, e perciò anche dai cartigli di suo padre Amon-hotep. Inoltre anche altri faraoni avevano sostituito i nomi dei loro antenati effettivi o divini su monumenti e statue col loro proprio, ritenendo di avere il diritto di farlo dal momento che erano incarnazioni dello stesso dio. Ma essi non avevano inaugurato né un nuovo stile né una nuova religione.

A questo punto Freud cadde dalla sua sedia privo di sensi. Tutti gli si affollarono intorno senza aiutarlo. Allora lo sollevai, lo trasportai nella stanza più vicina, e lo feci sdraiare su un sofà. Mentre lo portavo, ritornò alquanto in sé, e mi fissò con uno sguardo che non dimenticherò mai: nella sua impotenza mi aveva guardato come se fossi suo padre. Quali che fossero le altre cause che potevano aver contribuito a questo svenimento - l'atmosfera era molto tesa - in tutti e due i casi era presente la fantasia del parricidio.

Spesso, in precedenza, Freud aveva fatto ripetute allusioni a me come al suo successore. Queste allusioni mi erano penose, poiché sapevo che non sarei mai stato capace di sostenere le sue teorie correttamente, e cioè come le intendeva lui. D'altro canto non mi era ancora riuscito di elaborare le mie critiche in modo tale che egli potesse prenderle in considerazione, e il rispetto che avevo per lui era troppo grande per costringerlo a un confronto definitivo con le mie idee. Ma l'idea che, senza la mia accettazione, mi fosse imposto il peso di dirigere un partito mi era per più ragioni sgradevole. Non lo desideravo. Non potevo sacrificare la mia indipendenza spirituale; e un tale onore mi sarebbe stato assai poco gradito, poiché mi avrebbe soltanto allontanato dai miei veri scopi. Il mio interesse era la ricerca della verità, e questo non aveva nulla a che fare con questioni di prestigio personale.

Il nostro viaggio negli Stati Uniti, iniziato a Brema, nel 1909, durò sette settimane. Eravamo assieme ogni giorno, e analizzavamo i nostri sogni. In quel periodo ebbi alcuni sogni importanti, ma Freud non riusciva a capirne nulla. Non per questo lo criticavo, poiché a volte avviene anche al migliore analista di non saper risolvere gli enigmi di un sogno. Era un insuccesso umano, che non mi avrebbe mai fatto smettere le nostre analisi: al contrario, esse avevano per me un gran valore, e la nostra amicizia mi era oltremodo cara. Consideravo Freud una per sonalità più anziana, più esperta e matura, e mi sentivo come un figlio suo. Ma poi capitò qualcosa che inferse un duro colpo alla nostra amicizia.

Freud ebbe un sogno, che implicava problemi che non mi sento autorizzato a riferire. Lo interpretai come meglio potevo, ma aggiunsi che si sarebbe potuto dire molto di più se mi avesse fornito alcuni particolari sulla sua vita privata. A queste parole Freud mi guardò sorpreso, con uno sguardo carico di sospetto, e poi disse: «Non posso mettere a repentaglio la mia autorità! » La perse in quel momento. Quella frase si impresse come un marchio indelebile nella mia memoria, e in essa vi era già un preannuncio della fine della nostra amicizia. Cosi, Freud poneva l'autorità personale al di sopra della verità!

Come ho già detto, Freud, o era incapace di interpretare i sogni che avevo, o li interpretava solo parzialmente. Erano sogni di contenuto collettivo, con una quantità di materiale simbolico. Uno per me fu particolarmente importante, perché per la prima volta mi indusse al concetto di «inconscio collettivo», e pertanto rappresentò una specie di preludio al mio libro Wandlungen und Symbole der Libido.

Ecco il sogno. Ero in una casa sconosciuta, a due piani. Era «la mia casa». Mi trovavo al piano superiore, dove c'era una specie di salotto ammobiliato con bei mobili antichi di stile rococò. Alle pareti erano appesi antichi quadri di valore. Mi sorprendevo che questa dovesse essere la mia casa, e pensavo: «Non è male! » Ma allora mi veniva in mente di non sapere che aspetto avesse il piano inferiore. Scendevo le scale, e raggiungevo il piano terreno. Tutto era molto più antico, e capivo che questa parte della casa doveva risalire circa al XV o al XVI secolo. L'arredamento era medievale, e i pavimenti erano di mattoni rossi. Tutto era piuttosto buio. Andavo da una stanza all'altra, pensando: «Ora veramente devo esplorare tutta la casa! » Giungevo dinanzi a una pesante porta, e l'aprivo: scoprivo una scala di pietra che conduceva in cantina. Scendevo, e mi trovavo in una stanza con un bel soffitto a volta, eccezionalmente antica. Esaminando le pareti scoprivo, in mezzo ai comuni blocchi di pietra, strati di mattoni e frammenti di mattoni contenuti nella calcina: da questo mi rendevo conto che i muri risalivano all'epoca romana. Ero più che mai interessato. Esaminavo anche il pavimento, che era di lastre di pietra, e su una notavo un anello: lo tiravo su, e la lastra di pietra si sollevava, rivelando un'altra scala, di stretti gradini di pietra, che portava giù in profondità. Scendevo anche questi scalini, e entravo in una bassa caverna scavata nella roccia. Uno spesso strato di polvere ne copriva il pavimento, e nella polvere erano sparpagliati ossa e cocci, come resti di una civiltà primitiva. Scoprivo due teschi umani, evidentemente di epoca remota e mezzo distrutti. A questo punto il sogno finiva.

Ciò che interessò Freud più di tutto, in questo sogno, furono i due teschi. Ci ritornava su continuamente e mi incitava a scoprire un desiderio che fosse in relazione con essi. Che cosa pensavo dei teschi? E di chi erano? Naturalmente sapevo con esattezza a che cosa mirava: a mostrare che nel sogno si celavano segreti desideri di morte. «Che cosa vuole in realtà?» pensavo fra me. A chi dunque dovrei augurare la morte? Provavo una violenta resistenza per un'interpretazione del genere, e avevo anche qualche sentore di ciò che realmente il sogno potesse significare. Ma allora non mi fidavo ancora del mio giudizio, e volevo sentire l'opinione di Freud. Volevo imparare da lui. Perciò, favorendo la sua intenzione dissi: «Mia moglie e mia cognata.» Dopo tutto, dovevo pur nominare qualcuno di cui valesse la pena di desiderare la morte!

Allora ero sposato da poco, e sapevo benissimo che in me non v'era assolutamente nulla che indicasse simili desideri. Ma non avrei potuto proporre a Freud le mie idee circa un'interpretazione del sogno, senza scontrarmi con l'incomprensione e l'opposizione sua. Non mi sentivo maturo per questo, e temevo anche che, se avessi sostenuto con insistenza il mio punto di vista, avrei perduto la sua amicizia. D'altra parte volevo sapere che cosa avrebbe dedotto dalla mia risposta, e quale sarebbe stata la sua reazione, se lo avessi ingannato dicendogli qualcosa che si adattava alle sue teorie. E cosi gli dissi una bugia.

Sapevo bene che la mia condotta non era moralmente irreprensibile, ma mi sarebbe riuscito impossibile aprirgli anche solo uno spiraglio sul mondo dei miei pensieri: troppo grande era il solco che lo divideva dal suo. In effetti Freud apparve molto sollevato dalla mia risposta; ne arguii che era del tutto disorientato di fronte a simili sogni, e che cercava riparo nella sua dottrina. Ma a me premeva trovare il vero significato del sogno.

Mi era chiaro che la cosa rappresentava una specie di immagine della psiche, cioè della condizione in cui era allora la mia coscienza, con in più le integrazioni inconsce fino allora acquisite. La coscienza era rappresentata dal salotto: aveva un'atmosfera di luogo abitato, nonostante lo stile di altri tempi.

Col pianterreno cominciava l'inconscio vero e proprio. Quanto più scendevo in basso, tanto più diveniva estraneo e oscuro. Nella caverna avevo scoperto i resti di una primitiva civiltà, cioè il mondo dell'uomo primitivo in me stesso, un mondo che solo a stento può essere raggiunto o illuminato dalla coscienza. La psiche primitiva dell'uomo confina con la vita dell'anima animale, così come le caverne dei tempi preistorici erano di solito abitate da animali prima che gli uomini le rivendicassero per sé.

Allora mi resi chiaramente conto di quanto fosse forte la differenza tra l'atteggiamento intellettuale di Freud e il mio. Io ero cresciuto nell'atmosfera permeata di storia della Basilea della fine del secolo XIX, e avevo acquistato, grazie alla lettura degli antichi filosofi, una certa conoscenza della storia della psicologia. Quando riflettevo sui sogni e sui contenuti dell'inconscio non lo facevo mai senza fare dei confronti storici; al tempo dei miei studi avevo sempre fatto ricorso al vecchio dizionario di filosofia del Krug. Conoscevo specialmente gli scrittori del settecento e del primo ottocento. Era il loro mondo che aveva creato l'atmosfera del mio salotto al primo piano. Avevo invece l'impressione che la storia spirituale di Freud cominciasse con Büchner, Moleschott, Dubois-Reymond e Darwin.

Alla condizione, testé descritta, della mia coscienza, il sogno aggiungeva ancora ulteriori stratificazioni: il pianterreno medievale disabitato da tempo, poi la cantina romana, infine la caverna preistorica; rappresentazioni di tempi passati e di stadi remoti della coscienza.

Nei giorni precedenti il sogno mi ero posto molti scottanti interrogativi: su quali premesse si fonda la psicologia di Freud? A quale categoria del pensiero umano essa appartiene? Il suo quasi esclusivo personalismo in che rapporto sta con le generali premesse storiche? Il mio sogno mi dava la risposta. Evidentemente risaliva fino alle fondamenta della storia della civiltà, una storia di successive stratificazioni della coscienza. Il mio sogno pertanto rappresentava una specie di diagramma di struttura della psiche umana, un presupposto di natura affatto impersonale. Questa idea colpiva nel segno, «it clicked», come dicono gli inglesi; e il sogno divenne per me un'immagine-guida, che in seguito si sarebbe rafforzata in misura insospettata. Fu la mia prima intuizione dell'esistenza, nella psiche personale, di un a priori collettivo, che dapprima ritenni fosse costituito da tracce di primitivi modi di agire. In seguito, con la più vasta esperienza e sulla base di più sicure conoscenze, ravvisai in quei modi di agire delle forme istintive, cioè degli archetipi.

Non ho mai potuto consentire con Freud che il sogno sia una «fac- data», dietro la quale si nasconda il suo significato; un significato già noto ma malignamente, per cosi dire, sottratto alla coscienza. Secondo me i sogni sono natura, che non ha intenzioni ingannatrici, ma esprime qualcosa come meglio può, così come una pianta cresce o un animale cerca il suo cibo come meglio possono. Così anche gli occhi non vogliono ingannare, ma forse ci inganniamo perché gli occhi sono miopi. Oppure, sentiamo male perché le nostre orecchie sono piuttosto sorde, ma non sono le orecchie che vogliono ingannarci. Già molto prima di incontrare Freud avevo considerato l'inconscio, e i sogni che ne sono l'immediata espressione, come un processo naturale al quale non si può attribuire alcuna arbitrarietà, e, soprattutto, alcuna intenzione di mistificare. Non conoscevo motivi plausibili per ritenere che le malizie della coscienza si possano estendere ai processi naturali dell'inconscio. Al contrario, l'esperienza quotidiana mi insegnava quanto sia tenace la resistenza che l'inconscio oppone alle tendenze della coscienza.

Il sogno della casa ebbe un singolare effetto: risvegliò il mio interesse d'un tempo per l'archeologia. Tornato a Zurigo presi subito un libro sugli scavi di Babilonia, e poi lessi diverse opere sui miti. Nel corso di queste letture mi capitò fra le mani l'opera di Friedrich Creuzer Symbolik und Mythologie der alten Völker,8 che mi accese d'entusiasmo. Lessi come un folle, e lavorai con un interesse febbrile in mezzo a una montagna di materiale mitologico, e poi anche di scritti gnostici, e finii in una totale confusione. Mi trovavo in uno stato di perplessità simile a quello che avevo provato quando ero in clinica, allorché cercavo di capire il significato degli stati psicopatici. Era come se mi trovassi in un fantastico manicomio e cominciassi a «trattare» e ad analizzare tutti i centauri, le ninfe, gli dèi e le dee del libro di Creuzer, come se fossero miei pazienti. Mentre ero così affaccendato non potei fare a meno di scoprire la stretta affinità tra la mitologia antica e la psicologia dei primitivi, e ciò m'indusse ad un intenso studio di quest'ultima. L'analogo interesse di Freud, nella stessa epoca, mi causò momenti di disagio, in quanto credevo di vedere di nuovo in lui il predominio della sua teoria sui fatti.

Mentre ero immerso in questi studi, mi capitarono le fantasie di una giovane americana a me sconosciuta, Miss Miller, che erano state pubblicate dal mio stimato e paterno amico Théodore Flournoy, negli «Archives de Psychologie» (Ginevra). Fui immediatamente colpito dal carattere mitologico di tali fantasie. Agirono come un catalizzatore sulle idee che disordinatamente si erano andate ammucchiando in me. Gradualmente da esse, e dalla conoscenza dei miti che ormai avevo acquisita, nacque il mio libro Wandlungen und Symbole der Libido. Mentre lavoravo ad esso feci sogni che preannunciarono l'imminente rottura con Freud. Uno dei più significativi si svolgeva in una regione montuosa sul confine svizzero-austriaco. Era verso sera, e mi appariva un uomo anziano, in uniforme di ufficiale della dogana dell'Impero austriaco. Camminava piuttosto curvo, passandomi innanzi senza fare attenzione a me. Aveva un'espressione accigliata un po' malinconica e annoiata. C'erano anche altre persone, e qualcuno m'informava che non era un uomo in carne e ossa, ma che si trattava dello spettro di un ufficiale di dogana morto anni prima. «È uno di quelli che non poterono morire veramente» mi dissero. Questa era la prima parte del sogno.

Mi misi ad analizzarla, in relazione alla dogana subito pensai alla parola «censura»; il «confine» mi fece pensare sia al limite tra la coscienza e l'inconscio, sia al distacco tra le concezioni di Freud e le mie. L'esame estremamente rigoroso da subire agli uffici doganali di confine mi parve un'allusione all'analisi. Ai confini si aprono le valige, e si esamina se contengono contrabbando; nel corso di questo esame sono scoperte le premesse dell'inconscio. Per quanto riguardava il vecchio doganiere, era evidente che la sua attività gli aveva dato tanto poco piacere e soddisfazione, che si era fatta una visione amara del mondo: non potevo rifiutare l'analogia con Freud.

Ai miei occhi Freud allora ( 1911 ) aveva già perso, in un certo senso, la sua autorità; ma rappresentava per me ancora una personalità superiore, sulla quale proiettavo l'immagine del padre, e al tempo del sogno questa proiezione era ancora ben lontana dall'essere scomparsa. Nei casi in cui v'è una tale proiezione, non si è obiettivi, e il giudizio è diviso. Da una parte si dipende, dall'altra si hanno resistenze. Quando feci il sogno avevo ancora un alto concetto di Freud, ma al tempo stesso avevo assunto un atteggiamento critico nei suoi riguardi. Questo atteggiamento diviso indica che ancora non ero cosciente della situazione, e non l'avevo penetrata: cosa che è caratteristica di ogni proiezione. Il sogno mi mostrava l'urgente necessità di chiarire questo stato di cose.

Sotto l'influenza della personalità di Freud avevo - per quanto possibile - rinunciato al mio proprio giudizio, e represse le mie critiche. Era questa la premessa indispensabile per collaborare con lui. Mi ero detto: «Freud è molto più saggio ed esperto di te. Per ora devi solo ascoltare ciò che dice, e apprendere da lui. » Poi, con mia sorpresa, mi scoprivo a sognarlo nei panni di un burbero impiegato dell'Imperiale Regio governo austriaco, un ispettore delle dogane che era defunto e tuttavia s'aggirava come un fantasma. Poteva trattarsi del desiderio di morte sospettato da Freud? Non trovavo in alcuna parte di me stesso motivo per poter normalmente nutrire tale desiderio, poiché anzi volevo a tutti i costi lavorare con lui, e, in un modo chiaramente egoistico, usufruire della sua vasta esperienza. La sua amicizia aveva pertanto un gran valore, e non avevo ragione di desiderare la sua morte. Ma era possibile che il sogno potesse essere considerato come un correttivo, una compensazione della mia alta opinione e della mia ammirazione coscienti, che, in modo per me inopportuno, andavano troppo oltre. Perciò il sogno sollecitava un atteggiamento alquanto più critico nei riguardi di Freud. Ne ero profondamente turbato, sebbene la conclusione del sogno mi sembrasse contenere un'allusione all'immortalità di Freud.

Il sogno non era finito con l'episodio del doganiere, ma dopo una pausa veniva una seconda parte, assai più notevole. Mi trovavo in una città italiana; era circa mezzogiorno, tra le dodici e l'una, e un sole feroce arroventava le strade strette. La città era costruita su colline, e mi faceva ricordare una particolare zona di Basilea, il Kohlenberg. Le stradine che scendono a valle, nel Birsigtal, attraverso la città, sono parzialmente costituite da rampe di scale. Nel sogno, una scala simile scendeva verso la Barfüsserplatz. La città era Basilea, eppure era anche una città italiana, un po' simile a Bergamo. Si era d'estate; il sole raggiava allo zenit, e tutto era avvolto in una vivida luce. Mi venivano incontro molte persone, e vedevo che i negozi stavano chiudendo e la gente si avviava verso casa per il pranzo. In mezzo alla fiumana della folla camminava un cavaliere, completamente armato; saliva gli scalini, venendo dalla mia parte. Portava un elmo, del tipo detto a bacinella, con fenditure per gli occhi, e una corazza di maglia, e su questa una tunica bianca, nella quale, davanti e di dietro, era intessuta una grande croce rossa.

Si può facilmente immaginare quali fossero i miei sentimenti al vedere all'improvviso un crociato venirmi incontro, in una città moderna, durante l'ora di punta! Ciò che mi sorprendeva particolarmente era che nessuno dei tanti passanti sembrava accorgersi di lui. Nessuno si girava a guardarlo. Era come se fosse stato completamente invisibile a tutti, eccetto me. Mi chiedevo che cosa significasse questa apparizione, e allora fu come se qualcuno rispondesse (ma non c'era nessuno che parlava): «Sì, è un'apparizione in piena regola. Il cavaliere passa sempre di qui, tra le dodici e l'una, e fa così da tanto tempo (ebbi l'impressione che fosse da secoli), e tutti lo sanno.» Il sogno mi fece molta impressione, ma a quel tempo non lo compresi affatto. Ero oppresso e turbato, non sapevo che pensare.

Il cavaliere e il doganiere erano figure contrastanti. Il doganiere era indistinto, vago, uno che «ancora non poteva morire», un'apparizione che andava svanendo. Il cavaliere, invece, era pieno di vita e del tutto reale. La seconda parte del sogno era altamente numinosa, mentre la scena al confine era stata prosaica e in se stessa di nessun effetto, poiché ero stato colpito solo dalle mie riflessioni su di essa.

Nel periodo successivo a questi sogni riflettei molto sulla misteriosa figura del cavaliere: ma solo molto tempo dopo aver meditato a lungo sul sogno riuscii a farmi un'idea del suo significato. Già nel sogno mi ero reso conto che il cavaliere apparteneva al secolo XII: quando cioè cominciava l'alchimia e anche la ricerca del Santo Graal. Le storie del Graal erano state assai importanti per me, fin da quando le avevo lette la prima volta a quindici anni, era stata un'esperienza indimenticabile, un'impressione che è durata per sempre. Sospettavo che in esse si celasse ancora un grande segreto. Perciò mi sembrò del tutto naturale che il sogno evocasse il mondo dei cavalieri del Graal e la loro ricerca, perche quello era, nel profondo, il mio mondo, che aveva ben poco in comune con quello di Freud. Tutto il mio essere cercava qualche cosa ancora ignota che potesse dare un significato alla banalità della vita.

Ero profondamente deluso del fatto che tutti gli sforzi dell'intelletto umano, nelle sue indagini, non fossero riusciti - apparentemente - a trovare nient'altro, nelle profondità della psiche, che le ben note e «troppo umane» limitazioni. Ero cresciuto in campagna, tra contadini, e ciò che non avevo potuto imparare nelle stalle lo avevo sperimentato grazie allo spirito rabelaisiano e alla libera fantasia del nostro folklore contadino. L'incesto e le perversioni non erano per me novità degne di nota, e non richiedevano particolari spiegazioni: assieme alla delinquenza, facevano parte di quella nera feccia che mi guastava il sapore della vita, mostrandomi fin troppo chiaramente quanto di brutto e di insignificante ci fosse nell'esistenza umana. Era per me naturale che i cavoli prosperassero sul concime: ma, onestamente, in tale conoscenza non riuscivo a vedere alcuna intuizione utile. « Il fatto è che tutta quella gente è vissuta in città e non sa niente della natura e della stalla umana» pensavo, profondamente seccato di queste turpi faccende.

Coloro che non conoscono nulla della natura sono ovviamente nevrotici, poiché non si sono adattati alla realtà. Sono troppo ingenui, come dei bambini, ed è necessario, per così dire, illuminarli sul fatto che sono esseri umani come tutti gli altri. Ma tale illuminazione non serve a guarire i nevrotici; questi possono riacquistare la salute solo quando si tirano fuori dal fango quotidiano. Sennonché indugiano fin troppo volentieri in ciò che hanno prima represso, e come potrebbero mai riemergerne se l'analisi non li rende consapevoli di qualcosa di diverso e di meglio? Se perfino la teoria li fa sprofondare e non offre nulla più, come via di liberazione, che l'ingiunzione razionale, o «ragionevole», di abbandonare una volta per sempre le loro puerilità? Che è proprio ciò che non possono fare! E come lo potrebbero, senza trovare qualcosa su cui potersi reggere? Una forma di vita non può essere abbandonata se non se ne riceve un'altra in cambio. Una condotta totalmente razionale della vita, come prova l'esperienza, è impossibile, specialmente quando una persona è per sua natura irragionevole in partenza, come un nevrotico.

Adesso capii perché la psicologia personale di Freud mi interessasse cosi vivamente. Ardevo dal desiderio di conoscere la sua «soluzione ragionevole», era per me una questione vitale ed ero disposto a qualunque sacrificio pur di ottenere una risposta. Ora mi stava davanti agli occhi. Freud era egli stesso affetto da una nevrosi, facilmente diagnosticabile e con sintomi penosi, come avevo scoperto durante il nostro viaggio in America. Egli mi aveva insegnato allora che tutti sono un po' nevrotici, e che perciò bisogna esser tolleranti. Ma non ero propenso ad accettare pacificamente questa dichiarazione, volevo piuttosto sapere come si potesse sfuggire a una nevrosi. Avevo visto che né Freud né i suoi discepoli potevano capire che cosa significasse per la teoria e la pratica della psicoanalisi, che persino il maestro non sapesse liberarsi dalla propria nevrosi. Quando poi Freud annunciava la sua intenzione di identificare teoria e metodo e di trasformarli in un dogma, non potevo più oltre collaborare con lui: non rimaneva per me altra scelta che ritirarmi.

Quando lavoravo al mio libro Wandlungen und Symbole der Libido, avvicinandomi alla fine del capitolo sul «Sacrificio» sapevo in precedenza che la pubblicazione mi sarebbe costata l'amicizia di Freud; progettavo di esporre in esso la mia concezione dell'incesto, la decisiva trasformazione del concetto di libido, e varie altre idee per le quali mi differenziavo da Freud. Secondo me l'incesto significava una complicazione personale solo in casi rarissimi. Di solito esso presenta un contenuto fortemente religioso, motivo per cui il tema dell'incesto ha una parte decisiva in quasi tutte le cosmogonie e in numerosi miti. Ma Freud si atteneva all'interpretazione letterale e non sapeva cogliere il significato spirituale dell'incesto in quanto simbolo. Sapevo che non avrebbe mai potuto accettare nessuna delle mie idee su questo argomento.

Ne parlai con mia moglie, e le riferii i miei timori. Ella tentò di rassicurarmi, perché pensava che Freud, sebbene non potesse condividere le mie vedute, avrebbe generosamente lasciato passare le mie interpretazioni. Io invece ero convinto che non ne sarebbe stato capace. Per due mesi non mi riuscì di scrivere, tanto ero tormentato da questo conflitto. Dovevo tenere i miei pensieri solo per me stesso o dovevo rischiare la perdita di un'amicizia cosi importante? Alla fine mi risolsi a scrivere, e questo mi costò l'amicizia di Freud.

Dopo la rottura con Freud tutti i miei amici e conoscenti si allontanarono da me, uno dopo l'altro. Si disse che il mio libro non valeva niente. Ero un mistico, e con ciò la cosa passò in giudicato. Riklin e Maeder furono i soli che rimasero con me. Ma avevo previsto il mio isolamento e non mi ero fatte illusioni circa le reazioni dei miei cosiddetti amici: era un fatto che avevo già prima considerato a fondo. Sapevo che mettevo in gioco tutto, e che dovevo avere il coraggio delle mie opinioni. Mi resi conto che il capitolo sul sacrificio rappresentava il mio sacrificio; e con questo convincimento potevo scrivere di nuovo, pur sapendo che le mie idee non sarebbero state comprese.

Riguardando indietro posso dire che sono stato il solo che abbia proseguito in modo logico l'indagine sui due problemi che pivi interessavano Freud: il problema dei «resti arcaici» e quello della sessualità. È un errore assai diffuso ritenere che io non veda il valore della sessualità. Al contrario, essa ha gran parte nella mia psicologia, come un'espressione essenziale - sebbene non la sola - dell'intera psiche. Ma il mio obiettivo principale è stato di investigarne - al di là del suo significato personale e della sua funzione biologica - l'aspetto spirituale e il significato numinoso, e cosi di chiarire ciò che affascinava tanto Freud, senza che egli sapesse coglierne il valore. I miei pensieri su questo argomento sono contenuti nei mie lavori Die Psychologie der Übertragung,9 e Mysterium Coniunctionis. La sessualità è della massima importanza come espressione dello spirito ctonio, poiché questo è 1'« altra faccia di Dio», il lato oscuro dell'immagine divina. Il problema dello spirito ctonio mi ha occupato fin da quando venni a contatto con il mondo dell'alchimia. Fondamentalmente, questo interesse fu risvegliato in me da quel primo colloquio con Freud, quando avvertii come egli fosse profondamente posseduto dal fenomeno della sessualità, pur senza sapermelo spiegare.

Il più grande merito di Freud fu senz'altro di aver preso i nevrotici sul serio, e di essere penetrato nella loro peculiare psicologia individuale. Ebbe il coraggio di far parlare la casistica, indagando cosi a fondo la vera psicologia dei suoi pazienti. Fu capace di vedere, per cosi dire, con gli occhi stessi del malato, e raggiunse quindi una comprensione delle malattie mentali più profonda di quanto fosse stato possibile fino allora. In questo fu spregiudicato e coraggioso. E questo lo portò a superare una quantità di preconcetti. Come un profeta del Vecchio Testamento si accinse a demolire falsi dei, a strappare i veli di tante disonestà e ipocrisie, mettendo in luce senza pietà il marciume dell'anima contemporanea. Non esitò di fronte all'impopolarità che una tale impresa comportava. L'impulso che cosi diede alla nostra civiltà consiste nella sua scoperta di una via d'accesso all'inconscio. Riconoscendo nei sogni la pili importante fonte d'informazione dei processi inconsci strappò al passato e all'oblio un valore che sembrava irrimediabilmente perduto. Dimostrò sperimentalmente l'esistenza di una psiche inconscia, ammessa fino allora solo come un postulato filosofico, in particolare nella filosofia di Cari Gustav Carus e di Eduard von Hartmann.

Si può ben dire che la coscienza culturale contemporanea non ha ancora assorbito nella sua generale filosofia l'idea dell'inconscio, e di tutto ciò che rappresenta, nonostante l'uomo moderno ne sia stato messo a confronto da più di mezzo secolo. Assimilare l'intuizione che la vita psichica ha due poli, rimane ancora un compito del futuro.

Note

1 Questo capitolo deve considerarsi soltanto come un complemento ai numerosi scritti di C.G. Jung su Sigmund Freud e la sua opera. (Cfr. tra gli altri Der Gegensatz Freud und Jung, 1929, in Seelenprobleme der Gegenwart, V ed. 1950, Sigmund Freud als Kulturhistorische Erscheinung, 1932, etc.).

2 Nel suo saluto a Freud {S. Freud, Ein Nachruf, in «Basler Nachrichten», 1 ottobre 1939) Jung l'ha chiamato «un'opera che ha fatto epoca» e «il più audace tentativo di rendersi padrone degli enigmi della psiche inconscia sul terreno apparentemente solido dell'empirismo... Per noi giovani psichiatri d'allora era una sorgente di illuminazione, per i nostri colleghi più vecchi un oggetto di derisione.»

3 Die Hysterielehre Freuds, eine Erwiderung auf die Aschaffenburgsche Kritik, Ges. Werke, Band IV.

4 Nel 1906, dopo che Jung ebbe mandato a Freud il suo lavoro sui Diagnostischen Assoziationsstudien, cominciò la corrispondenza tra i due, che proseguì fino al 1913. Nel 1907 Jung mandò a Freud il suo libro Die Psychologie der Dementia Praecox (N. d. A. ].)

5 Wandlungen und Symbole der Libido, 1912. Nuova edizione, Symbole der Wandlung, 1952.

6 Per la reazione di Freud all'incidente si veda l'Appendice, pp. 405 sgg.

7 Cfr. Appendice, pp. 399 sgg.

8 Simbolismo e Mitologia dei popoli antichi, Leipzig und Darmstadt 1810-23.

9 La psicologia del transfert, Milano, Casa editrice II Saggiatore, 1963, II edizione.